sabato 29 febbraio 2020

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EPITAFFIO
(per un suicidio immaginato)



D'una corona porto il nome

ché la vita mi incoronò.

Ma Amor m'uccise.

E or qui giaccio, in marmorea tomba

andato via e ritornato

- Destino volle, io volli -

lì, da dove una volta venni al mondo. 

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Commento:

Scrissi questa piccola poesia durante il periodo più buio della mia ancor breve esistenza. Fu un periodo di qualche mese - non ricordo bene il tempo, giacché in quel frangente il tempo non aveva per me più alcuna importanza -, nel quale la depressione, questa patologia tanto ineffabile ed evanescente, mi si era fatta innanzi invadendo intermente il mio animo. Nella completa, nera disperazione dei miei umori, avevo deciso, per ben due volte, di togliermi la vita, e fu solo un caso (o meglio, due casi che accaddero sopraggiungendo al di là del mio volere) a salvarmi dall'atto al contempo audace e crudele. In entrambe le situazioni, una donna, colei che più amavo al mondo, più ancora di me stesso, e che mi aveva abbandonato, era tornata da me accettando di far pace e condividere di nuovo una relazione sino a quel momento morbosa, in parte perversa, foriera di sofferenza per entrambi. Questo fu appunto l'epitaffio che volevo fosse trascritto sulla tomba che avrebbe accolto il mio corpo esanime, dopo la mia dipartita. 
La corona di cui parlo è la parola che illustra il senso letterale del mio nome biblico: 'Stefano', o 'colui che porta la corona'. Nel mio caso, l'incoronazione è quella dell'alloro, di cui le teste dei poeti venivano adornate nell'antichità. L'Amore è assieme la personificazione della forza che muove il mondo e unisce uomini e donne, ma anche l'epiteto particolare e pure universale che viene assegnato reciprocamente dagli innamorati, l'uno all'altro. Il Destino, o fato che guida gli eventi umani, coincide qui con la mia propria volontà di uccidermi: la mia mano è strumento d'una sorte beffarda. La morte è concepita come un andar via da questa realtà illusoria per tornare alla vera Realtà originaria, quella dalla quale tutti noi allo stesso modo nasciamo, come isole che sorgono dagli abissi di un mare sconfinato, per poi ancora inabissarsi in esso al termine della propria vita.
La struttura è quella dei versi liberi, di diversa struttura sillabica e diverso ritmo, e sciolti, ovvero slegati e privi di rima.

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