giovedì 9 aprile 2020

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QUANDO MORIRE VOLEVO
(La scelta)



Quando morire volevo, ieri andai

senza sapere d'andare. Costeggiavo

il ciglio friabile di un fondo dirupo

come invasato d'un male detto amore

ma amore non era: ché io m'ammalai

e l'anima nel corpo più non sentivo.


Cresciuto com'ero nella sorda assenza

di passione, schiavo sì fui di chi quella

fisica presenza che mai ebbi avuta

mi donava, come fonte d'acqua torbida

per un assetato ch'altro mai non brami.

Ma splendido fu soffrire il mio dolore

splendente la pena intessuta d'amore.


E disperato in oblio la mente e il cuore

io immolai su altare d'un sacrificio

e voltandomi nulla al mondo scorgevo

non le persone, non le cose, neppure

il tempo che fluido scorreva ad ondate

amare di giorni e notti ormai perduti

vuoti giorni e lunghe notti, dai miei incubi

gretti costellati, privi di alcun senso.


Eppure oggi tutto è diverso. Guarito

dai mali, di zone depresse non vedo

neppur l'ombra. Ma una volta ancora scelgo

di vivere simile a nube nel cielo

vasto di nubi, che lieta si dissolve

cosciente in azzurro di quieti vapori

e destinata al sol termine del Tutto

che impermanente appare e quindi scompare

per non lasciar traccia alcuna d'esser stato. 

*
Commento:

Di versi sciolti in dodecasillabi mi servo per ricordare (dopo la consapevolezza vi è infatti la memoria serena, priva di turbamento) il momento più buio della mia vita, quello in cui caddi, per non più di qualche mese, in uno stato di depressione. 
La depressione, questo male così banalizzato dal senso comune, quasi fosse una mera tristezza, o un generico stato di malinconia. Le persone però non sanno, non si rendono conto di che cosa significhi, per un essere umano, essere depressi, ovvero ammalarsi di quella che, a tutti gli effetti, è una vera e propria malattia mortale, in quanto con i suoi pensieri suicidi ricorrenti minaccia l'esistenza stessa di chi la esperisce. E tale fui io, dopo esser stato abbandonato, per l'ennesima volta, da quella donna a cui avevo regalato l'anima intera, asservendomi come si asservisce un cane al proprio padrone; fui un uomo che non trovava più alcun significato alla propria misera vita, e il cui unico desiderio era di uccidersi per porre fine a quell'agonia insensata del vivere.
Un vivere che non è vivere, ma morire lentamente, un morire ad occhi aperti. Infatti, non vedevo più nulla attorno a me se non la morte: non percepivo più lo scorrere del tempo - e non saprei dire infatti esattamente quanto durò quella condizione -; ogni giorno era identico all'altro, in cui mi svegliavo sperando che la giornata si sarebbe presto conclusa, e mi addormentavo pregando il cielo di non risvegliarmi mai più dal mio sonno. Non avevo più piacere nel fare nulla: non nell'uscire, non nel bere, non nel vedere gli amici, non nello studiare o nel lavorare, non nel leggere e nello scrivere, e niente aveva più valore, attorniato ed invaso com'ero dal Nulla tremendo. 
E tra pianti, patimenti e programmi di assassinio di me stesso, completamente abbattuto e sfiancato, ci fu qualcuno che mi aiutò, piccole luci nell'oscurità più fitta: una psicologa con la sua ragione, una psichiatra con le sue medicine, degli amici e delle amiche col loro affetto sincero; e, infine, ripresi in mano la mia dolce vita, decidendo di essere chi sono ora. 
Oggi, infatti, non ho paura d'essere me stesso. E fiero di me stesso, simile a un sopravvissuto in un lungo naufragio, mi pasco in un esistere che, seppure impermanente come ogni cosa nel suo divenire, sa di lietezza e godimento, per chi di lietezza e godimento ebbe strenuo bisogno.

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